Francesca Napoli, dalle @storiedallaltromondo all’audience di questo mondo

Francesca Napoli, dalle @storiedallaltromondo all’audience di questo mondo

Il racconto del dietro le quinte di una pagina Instagram di successo, nata con lo scopo di destrutturare il contrasto tra ciò che i media raccontano e ciò che i migranti vivono

Da anni espressioni come immigrazione, flussi migratori, richiedenti asilo, sbarchi, sono oggetto dell’attenzione quotidiana e del vocabolario giornaliero dei mass media.

Al di là di questi ultimi, i quali rispondono per loro stessa conformazione alle logiche del mercato, c’è chi rende proprie tali tematiche e se ne occupa con impegno e dedizione ogni giorno, senza scopi di lucro. Francesca Napoli, avvocato specializzata in diritto d’asilo, napoletana residente a Roma, si è posta l’obiettivo di risvegliare le coscienze dei molti ancora troppo spesso poco informati in materia.

Apprendiamo il suo impegnato e quotidiano operato tramite Instagram, dove la sua pagina @storiedallaltromondo conta oltre 30 mila followers. Quando l’abbiamo sentita, abbiamo cercato di indagare le basi e le articolazioni del suo impegno quotidiano, sia come avvocato che come titolare dell’account.

In cosa consiste il suo lavoro e come nasce @storiedallaltromondo?

“Io collaboro come operatrice legale presso un’associazione che si occupa di fornire assistenza ai richiedenti asilo e rifugiati. In quanto avvocato, seguo queste persone nella procedura di richiesta dei documenti, nel dar loro supporto su problematiche relative al loro soggiorno in Italia. Inoltre, sono anche una ricercatrice e studiosa dei fenomeni migratori, di recente ho conseguito un dottorato socio-giuridico e la mia tesi era incentrata sul diritto d’asilo, con un caso studio sulla Nigeria.

Storiedallaltromondo, invece, nasce due anni fa quando, durante un periodo in cui la logica dell’invasione da parte dei migranti era dominante nella narrativa mediatica, sentivo un forte contrasto rispetto a quello che vivevo tutti i giorni nel mio lavoro, ascoltando le storie dei miei assistiti. Dunque, ho sentito il dovere di condividere ciò che io facevo, non mi bastava più fare, ma avevo il bisogno di raccontare. Storiedallaltromondo ha lo scopo di destrutturare, con pazienza e approfondimento, quegli slogan che, basati talvolta su finzioni mediatiche, si radicano sulla coscienza delle persone”.

Qual è il punto di forza della sua duplice attività: nel suo studio e nella sua pagina?

“Ciò che mi dà forza nel mio lavoro pratico sono le persone.Chi fa il mio lavoro rischia di interfacciarsi con dinamiche infinite, senza risposte effettive, che causano momenti di grande sconforto. In quei momenti mi dico che se non posso salvare il mondo, posso almeno aggrapparmi a loro, che non sono gocce nel mare, ma vite umane; mi concentro sul rapporto con loro, sui feedback che loro mi rimandano e sul successo dei loro percorsi.

Le persone sono il punto di forza anche a livello mediatico nella pagina. La mia informazione è antropocentrica: cerco sempre di fare in modo che le notizie passino per le persone. Ad esempio, se parlo di un conflitto, cerco di raccontarlo dal punto di vista delle vittime e questo permette al lettore di empatizzare di più con i contenuti”.

Si sente una mediatrice tra le storie dall’altro mondo e l’audience di questo mondo?

“Sì, però parto col dire che mi ritengo fortunata ad esser nata in questa parte del mondo; ho cominciato solo dopo la laurea ad aprire gli occhi su certe tematiche, quando la mia indole mi ha spinto a viaggiare, a lavorare in Paesi in via di sviluppo, a compiere del volontariato in India, in Asia, in Sud America, in Africa. Grazie a questa spinta interiore, al mio lavoro e al mio volontariato, ho aperto gli occhi, ma non dimentico il contesto privilegiato in cui sono cresciuta. Le mie origini mi permettono di conoscere l’esistenza – tra gli estremisti, i razzisti e le persone attive – di un’enorme fascia di persone non informate, per assenza di strumenti o per abitudini culturali. È soprattutto quella fascia che intendo informare e per cui mi pongo l’obiettivo di mediare”.

Dopo circa due anni di presenza su Instagram, come giudica la risposta degli italiani ai suoi contenuti?

“Ho avuto un’ottima risposta dal punto di vista del seguito. Essendo un tema molto di nicchia, i commenti sono stati spesso positivi e ho riscontrato poco hating. Ma ritengo che il tutto sia un po’ una bolla se ci si ferma alla pagina; per questo chiedo sempre alle persone di condividere a loro volta e di parlare ai propri followers, i quali – con più probabilità – potrebbero essere molto meno informati dei miei che, per il solo seguire la mia pagina, hanno già mostrato interesse verso la tematica”.

In che misura pensa abbia influito e stia ancora influendo la situazione pandemica in atto con la tematica dell’immigrazione in Italia?

“La situazione pandemica ha dato prova che le tragedie nel mondo non si fermano, anzi si accentuano. Nel corso dell’ultimo anno, in Italia si è verificata una chiusura delle frontiere ancora più netta e una serie di abusi: le navi quarantena, i porti chiusi, i respingimenti nella frontiera ad Est della rotta balcanica.
D’altra parte, però, la pandemia ci ha insegnato che siamo vulnerabili; abbiamo avuto misura di come l’equilibrio possa spezzarsi in un secondo e si possa finire in ginocchio. La pandemia ci ha fornito una chiave per comprendere meglio il trauma che vivono ogni giorno milioni di persone al mondo”.

Nel corso della sua carriera tanti esseri umani le hanno raccontato con occhi profondi le loro storie e ciascuna di esse è senz’altro degna di nota ed importanza. Ce n’è una, però, che l’ha colpita più di tutte le altre?

“Ho ascoltato migliaia di storie, senz’altro ci sono delle persone a cui mi sono affezionata di più, però non ne saprei dire una. Le storie che mi colpiscono di più sono quelle con cui entro più in empatia, nella fattispecie – da quando sono diventata mamma – quelle che riguardano le madri e i bambini, donne che hanno perso i loro figli in Libia, durante la rotta balcanica o che li hanno visti morire di fame e di freddo. Per questo cerco di essere così attiva: è l’unico modo con cui riesco a tacitare la mia coscienza”.

La sua biografia di Instagram si conclude con la frase “il diritto non è un’opinione”. A cosa intende alludere e cosa consiglia a chi la pensa diversamente?

“Il diritto non è un’opinione, è un monito. In questa frase lo intendo come principio alla base dei nostri ordinamenti, che sono il fondamento della nostra società. Se ci si definisce italiani non si può non abbracciare quelli che sono i principi fondamentali della nostra Costituzione: il rispetto della dignità e dei diritti inalienabili dell’essere umano, che devono riguardare indistintamente tutti. Questo è un po’ un faro a cui mi piace guardare nei momenti di sconforto.
Anche se oggigiorno si cerca di coprire con il concetto di buonismo chi lavora in questo ambito, come quasi un’offesa, io ritengo che non esista il buonismo in quest’ambito. Esiste il realismo e i diritti, che vanno rispettati”.

Così si conclude la conversazione con l’avvocato Francesca Napoli, che ha la capacità di semplificare – senza mai banalizzare – ai minimi termini tematiche e argomenti troppo spesso presentati come complessi.

I diritti di cui abbiamo disquisito e la spinta verso un’idea di uguaglianza di benefici richiamano il noto discorso “I have a dre- am” di Martin Luther King che, nell’agosto del 1968, esplicitò la speranza che un giorno la popolazione di colore avrebbe goduto degli stessi diritti dei bianchi. Oltre cinquant’anni dopo, nell’era del politically correct, si preme ancora sull’uguaglianza di diritti tra i popoli, che dovrebbe prescindere dal colore della pelle, dalla provenienza e dalla memoria storica.

 

Articolo di Giorgia Giangrande

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Giorgia Giangrande