Un futuro senza noi

Un futuro senza noi

Un articolo pubblicato sul Foglio circa quattro anni fa a titolo  “L’ISTAT ci spiega perché gli italiani non fanno più figli”argomentava come il problema del calo delle nascite fosse legato sì ad un fattore economico, ma anche al fatto che si entra troppo tardi nel mondo del lavoro e che non esistano vere e proprie politiche di sostegno alla famiglia e alle donne durante il periodo di gravidanza e allattamento.

Secondo le inquietanti statistiche dell’ISTAT, nel 2020 le nascite in termini assoluti sono state 404.000, circa 15.000 in meno rispetto all’anno precedente, con il numero medio di figli per donna pari a 1,17.

Inoltre il 22,4% delle donne tra i 30 e i 34 anni non ha figli, così come il 13,9% di quelle tra i 40 e i 49 anni. In tal senso va inquadrato l’intervento delpremier Mario Draghi che agli Stati Generali della Natalità ha affermato che: “Per decidere di avere figli i giovani hanno bisogno di tre cose: un lavoro certo, una casa e un sistema welfare e servizi per l’infanzia. Tutte cose su cui l’Italia si trova svantaggiata rispetto ad altri paesi”.

Tuttavia il calo delle nascite non può essere imputato solamente a fattori di tipo politico, economico e sociale.

E questo dato salta agli occhi osservando la realtà di alcuni paesi, come ad esempio la Corea del Sud, in cui vi sono politiche serie di sostegno alle nascite sia a livello di sussidi  economici che di assistenza sociale, ma dove tuttavia non si riscontra un inversione di tendenza  del declino democrafico.

Sembra che la scelta di aprirsi alla vita,  o procrastinare la nascita o addirittura di rinunciarvi, abbia radici più profonde che affondano nella volontà dell’individuo stesso.

Vi è nella natura umana un istinto biologico di riprodursi e un desiderio innato di generare una nuova vita, ma questo desiderio sembra venir soffocato non solo da problematiche economiche e sociali, ma anche da una cultura individualistica ed egocentrica, che lascia poco spazio all’arrivo di un figlio.

Nella società odierna si riscontrano in questi ultimi anni infatti alcune tendenze di una cultura contraria alla vita.

Nel gergo quotidiano assistiamo ad esempio all’emergere di espressioni come“Childfree”, che presentano il figlio non come una persona da amare, ma come un qualcosa da evitare alla stregua del fumo o dell’inquinamento.

Oppure nel web si riscontra un pullulare di acronimi come GINK (Green inclinations, No Kids)  o THINKERS (Two Healthy Incomes, No Kids, Early Retirement), che rendono bene l’idea di questa ostilità.

Questo, mix di fattori socio-economici e culturali, come vedremo, porta molte coppie ad una scrupolosa pratica di pianificazione familiare che, in molti casi, sfocia nella decisione legittima di procrastinare o rinunciare alla nascita di un figlio.

Tale pratica sembrerebbe configurarsi pertanto come una delle cause della crisi demografica italiana.

Per analizzare più accuratamente le dinamiche di questa problematica abbiamo interpellato Jacopo Coghe, vicedirettore dell’Associazione Pro-Vita e Famiglia ONLUS.

 

  1. In quale percentuale il calo delle nascite può essere attribuito a fattori biologici e in quale a fattori socioeconomici?

«Innanzitutto, oggi, soprattutto in Italia e in Europa, si fanno meno figli e in età più avanzata.

Questo è sicuramente un fattore che possiamo definire “biologico”, ma non è altro che una conseguenza di fattori economici e prima ancora e soprattutto, culturali.

La società e la politica attuali non permettono alle giovani coppie di avere prospettive, ecco perché un uomo e una donna spesso sono costretti a rimandare sempre più avanti nel tempo la scelta di avere un figlio.

Viviamo in un Paese dove la disoccupazione giovanile è altissima, dove i contributi per la maternità e la paternità sono tra i più bassi d’Europa, dove non viene permesso economicamente di scegliere di occuparsi dei figli a casa, ma viene imposto che, se si è fortunati ad avere un lavoro, questo va tenuto stretto nonostante la precarietà salariale.

Una società e una politica che fanno ancora poco per le famiglie finiscono quindi per generare, a cascata, dei fattori socioeconomici tali da favorire a dismisura il calo delle nascite».

 

 

  1. La prospettiva di crescere un figlio incide sulla qualità della vita, sul benessere personale? Il figlio può essere visto come un ostacolo ad un ideale di vita comoda?

«Assolutamente no.

Un figlio è sempre un dono, una ricchezza, un’unicità che porta gioia ed è anche una risorsa non solo, ovviamente, per i genitori e la famiglia tutta ma per tutta la società.

I figli rappresentano il nostro presente e futuro. Se oggi, invece, siamo costretti a sentire il mantra del figlio come “possibile ostacolo” è perché la società ci ha inculcato l’idea egoistica di pensare solo a noi stessi, come singoli, e non a noi come parte di una famiglia.

Anche il fattore economico, come detto prima, incide su questa presunta mancanza di benessere, perché la mancanza di incentivi e sostegno alle famiglie finisce per far diventare un figlio una spesa difficile da sostenere.

La soluzione, però, non è eliminare i figli, ma dare la possibilità alle famiglie, soprattutto giovani, di poterli avere».

 

  1. L’innalzamento dell’età del matrimonio o di una vita comune in che percentuale impatta con la problematica?

«Ritorniamo sempre a quello che è il punto centrale dell’intero problema: stare accanto alle famiglie, aiutandole e sostenendole.

Purtroppo, se ai giovani manca il lavoro, le risorse e se si sentono bombardare dai messaggi che “stare soli è bello” o che, peggio ancora, bisogna vivere le relazioni senza serietà e stabilità si finisce per rimandare sempre di più la prospettiva del matrimonio e ancora di più quella di avere figli».

 

  1. La fissazione per la linea e per i modelli di bellezza possono tuttavia essere un ostacolo?

«Purtroppo, questo è un problema che riguarda soprattutto le donne, discriminate da una cultura che le vorrebbe sempre perfette, sempre in grado di fare qualsiasi cosa e alla costante ricerca del successo e della carriera.

Certamente questo fattore incide, ma credo sinceramente in modo molto meno preponderante rispetto agli ostacoli di cui abbiamo parlato prima che vengono eretti davanti a migliaia di famiglie italiane».

 

Condividi:

Chiara Rebeggiani