Nessuno è illegale
Come riportato dal Telegraph, si stima che in poco più di trent’anni siano stati eretti in Europa muri e recinzioni per un totale di 1800 km, equivalenti a dodici nuovi muri di Berlino.[1] La commemorazione delle vittime alle frontiere si è svolta il 6 febbraio, a tre giorni dalla riunione straordinaria del Consiglio Europeo[2] nella quale si è riaffermato il supporto nell’utilizzare fondi UE per continuare a finanziare la costruzione di muri e barriere ai confini europei, così come la strategia fin qui messa in atto per il loro controllo.
Il 6 febbraio è la data scelta per commemorare le tante morti avvenute ai confini dell’Europa. Una decisione che proviene da civili e attivisti di tutto il mondo uniti alla rete transnazionale di Abolish Frontex. Un punto nel tempo, una tragedia. Quella del ‘massacro di Tarajal’, avvenuto a Ceuta nel 2014, e durante il quale persero la vita quattordici persone che tentavano di aggirare il confine che divide l’Europa e l’Africa nello stesso territorio africano tra Marocco e Spagna, cercando di attraversarlo a nuoto.
La Guardia Civil sparò proiettili di gomma contro le persone che nuotavano di fronte alla spiaggia di Tarajal per impedire che varcassero il confine, provocando la morte di quattordici giovani provenienti dall’Africa centrale e occidentale, prevalentemente dal Camerun. Le ventitrè persone sopravvisute che raggiunsero la sponda spagnola vennero immediatamente respinte in Marocco, dopo aver subito ulteriormente la violenza della polizia così come riportarono le testimonianze raccolte dall’Ong Caminando Fronteras, promotrice del recente rapporto ‘Victimes de la Nécrofrontière 2018-2022’[3], la frontiera occidentale Euro-Africana.
Sei anni dopo, nonostante le azioni legali promosse, non venne fatta giustizia sull’accaduto e i familiari delle vittime insieme a gruppi di attivisti decisero di riunirsi a Oujda, città del Marocco poco distante dall’Algeria, dove per la prima volta è stata celebrata una giornata commemorativa e di denuncia contro la violenza alle frontiere. Scelta quale data simbolica ha dato il via a manifestazioni in tutto il mondo per opporsi alla loro militarizzazione e per rivendicare con forza il diritto di movimento e la libertà di circolazione per tutti gli esseri umani.
Quando si pensa alla libera circolazione dello spazio Schengen troppo spesso non si riflette sul fatto che i cittadini di ben 104 paesi del mondo [4] – tra i quali tutti i paesi del continente Africano, ad eccezione delle isole Seychelles e delle Mauritius – devono richiedere un visto prima di poter entrare nell’Unione Europea e che quindi il diritto di circolazione è strettamente legato a quello che viene definito “accident of birth”, il fattore maggiormente determinante per la libertà di movimento e che tale elemento non si possa scegliere, così come non si sceglie da quali genitori e in quale “strato sociale” nascere.
Pensare ad elementi così semplici deve forse portarci a riflettere più approfonditamente a ciò che definiamo come libertà di movimento e se come cittadini moderni siamo disposti ad accettare che le nostre libertà in generale siano legate al principio dilagante e sistemico, purtroppo tornato in auge con vigore, del privilegio. Riflessione apparentemente banale forse, ma necessaria in una società opulenta che tende a levigare ogni asperità della vita quotidiana e della realtà.
Il pensiero moderno, ci dice la storia, si fonda sulla volontà di emancipazione dalla servitù materiale e dalla subalternità intellettuale dell’uomo, muove dalla necessità dell’eliminazione del privilegio per permettere un’eguaglianza sostanziale dei cittadini, che solo in tal modo hanno potuto divenire maggiorenni e liberarsi dalla tutela di un potere totalizzante e liberticida di antico regime per poter realizzare pienamente la propria umanità, costituendo una società moderna che tra i molti travagli ci ha condotti nel 1948 anche alla Dichiarazione Universale dei diritti umani e all’enunciato dell’art.13 “1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. 2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese”.
Non dobbiamo allora sapere cosa rappresentano questi muri alle soglie di una fortezza che sempre più si cristallizza in una guerra dell’esclusione? E non solo rispetto a coloro che tentano di valicare le frontiere alla ricerca di protezione perché in fuga da guerre, persecuzioni, povertà e perché no, alla ricerca di migliori condizioni di vita. Cosa rappresentano davvero quei muri per chi si trova invece al loro interno?
L’accordo di Schengen stipulato nel 1985 tra Germania, Francia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo, fu un primo passo indietro rispetto al pieno diritto di libertà di circolazione. Esso iniziò infatti a sancire una ‘libera circolazione’, con i debiti distinguo rispetto all’immigrazione delle persone straniere espressi ora nell’art. 67 del TFUE. Sempre lo stesso accordo sollecitava gli stati a proteggere le frontiere esterne per impedire l’immigrazione. Due giornalisti, Stefano Galieni, di Left e Transform!italia e Fabrizio Maffioletti, di Pressenza, in un incontro ricco di riflessioni sul tema della difesa dei confini in Europa e che da anni si occupano di immigrazione e di politiche migratorie europee, hanno ben esposto in una diretta andata in onda il 22 dicembre 2022 all’interno di un’iniziativa di Alessandra De Rossi[5], la genealogia della militarizzazione dei confini europei. Essa si è andata via via consolidando a partire dall’istituzione dello ‘Spazio Schengen’ ed è giunta sino alla nascita di Frontex, partendo da una risoluzione per costituire un organo di protezione dei confini esterni e che venne trasformato in seguito in un’agenzia operativa, l’Agenzia europea della guardia di frontiera, fondata nel 2004 e che dal 2016 è stata ampliata anche a guardia costiera.
Frontex, appunto. Organismo che ha il compito di assistere gli Stati membri dell’Ue così come i paesi associati Schengen – come ad esempio la Svizzera, che contribuirà entro il 2027 con un finanziamento supplementare per un ammontare di 61 milioni di franchi – nella protezione delle frontiere esterne dello spazio di libera circolazione dell’UE, e che in quanto Agenzia europea è finanziata dal bilancio dell’Unione e dai contributi dei paesi associati.
Il dramma del 6 febbraio 2014 non fu certamente il primo, né in territorio spagnolo, né lungo i confini marittimi e terrestri dell’Unione Europea. Esso rappresenta un anello di una lunga catena di discriminazione e violenza che si sta perpetrando da decenni e che è costantemente sotto i nostri occhi. Restando alla sola Spagna – la militarizzazione e la costruzione di barriere e muri ad alta tecnologia si estende appunto a tutta l’Europa – proprio l’estate scorsa, dopo otto anni dal ‘massacro di Tarajal’ e nella sua seconda enclave, a Melilla, ha avuto luogo un altro terribile dramma, dove nel tentativo di varcare le frontiere spagnole hanno perso la vita altre trentasette persone.
A dimostrazione ulteriore non solo dell’incapacità di affrontare un fenomeno complesso, ma anche di un’assenza di una vera e propria politica migratoria. Spesso si sente infatti parlare di governance dei flussi migratori, che nei fatti però si traduce con il mero esercizio della forza, in virtù di leggi sancite all’occorrenza, ovvero con l’istituzione di centri per il rimpatrio, con i blocchi navali nel Mediterraneo, con decreti per osteggiare il soccorso in mare, il finanziamento di muri, barriere e il dispiego di forze militari e fondi pubblici per impedire con tutti i mezzi disponibili l’arrivo delle persone che desiderano raggiugere l’Europa, a costo delle tante vite perdute alle porte dei paesi dell’Unione.
Comprendere e rivelare con attività di ricerca è ora più che mai fondamentale per poter smascherare la natura della violenza, così come l’ambiguità dell’Agenzia Frontex, coinvolta recentemente negli scandali emersi grazie alle indagini di testate giornalistiche, tra cui il gruppo d’inchiesta Lighthouse Reports [6], che rivela la sua collaborazione rispetto a respingimenti su larga scala, così come ai dati emersi dal rapporto dell’Olaf, l’Agenzia antifrode dell’Ue, che ha portato alla luce gravi irregolarità nella gestione dell’agenzia e delle conseguenti violazioni dei diritti umani durante il mandato di Fabrice Leggeri, dimessosi il 28 aprile 2022 in seguito alla pubblicazione e al rifiuto da parte del Parlamento europepeo di approvare nuovamente il bilancio dell’agenzia, così come la sua stessa ambigua natura, che consiste nell’essere operativa formalmente “a livello strategico”, utilizzando però i corpi di frontiera degli Stati membri e rendendo pertanto difficile l’attribuzione di responsabilità dirette negli accadimenti come quello che ha portato all’istituzione del giorno di commemorazione e ai tanti che ne sono seguiti, così come per i respingimenti illegali che sappiamo ormai essere numerosissimi, se non sistematici e massivi.
Il 6 febbraio dunque deve essere per noi una data simbolo che costituisce una doppia promessa così come ci ricordano gli attivisti. Ricordare e onorare le vite perdute e al contempo promettere di combattere il regime di morte che caratterizza le frontiere europee. Una fiaccola nel caos dei nostri tempi, che deve fare luce nel tentativo di andare più a fondo. Rivendicare la possibilità quali cittadini di comprendere come abbattere quei muri dall’interno per scoprire prassi che facciano maturare il frutto di una nuova libertà e interrare il fossato che ci separa dal futuro.
[1] https://caminandofronteras.org/fr/monitoreo/victimas-necrofrontera-2018-2022/
[2] Cfr. Allegato 10 Regolamento 2018/1806 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 novembre del 2018 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32018R1806&from=en#d1e32-54-1
[3] https://twitter.com/Alederossi1/status/1606041126246371329
[4] https://www.lighthousereports.nl/investigation/frontex-the-eu-pushback-agency/
[5] https://twitter.com/Alederossi1/status/1606041126246371329
[6] https://www.lighthousereports.nl/investigation/frontex-the-eu-pushback-agency/