Gorée, la porta del non ritorno dell’Africa

Gorée, la porta del non ritorno dell’Africa

Il 23 agosto è stata la Giornata internazionale per la commemorazione della tratta degli schiavi e della sua abolizione. Situata a soli 2 km da Dakar, l’isola di Gorée è uno scrigno di storie vissute e testimonianza delle brutture del mondo.

 

Siamo arrivate a Gorée con il traghetto delle 10 dal porto di Dakar. Qui gli scafi emettono un fumo nero densissimo e nauseante, come le macchine o qualunque altra cosa sia dotata di un tubo di scappamento, ma dopo tre mesi in Senegal mi sono ormai abituata allo smog prodotto dai veicoli inquinanti che, in Europa sarebbero vietati. Gorée è bellissima, con strade lastricate e casette colorate. In quegli edifici colorati hanno abitato portoghesi, olandesi, inglesi e francesi, che hanno donato all’isola quello stile architettonico coloniale, in contrasto con le anguste abitazioni dei piccoli villaggi in Senegal.

Chi abita qui è testimone quotidiano di un’eredità storica e sociale che riguarda l’umanità intera. Gorée infatti dal 1978 è patrimonio mondiale dell’UNESCO in quanto è stata il principale avamposto per il commercio di schiavi del potere coloniale dal XV al XIX secolo di tutta l’Africa occidentale. In quasi tre secoli l’UNESCO stima che siano passati circa 20 milioni di uomini, donne, bambini, schiavi del potere coloniale, insardati come carne in scatola nelle 28 maisons dell’isola, prima di essere imbarcati per le Americhe. Toccare i muri di una delle maison des esclaves ti fa sentire in debito con l’Africa per il solo fatto di essere bianca e, pensi a quanto il connubio tra geopolitica e razzismo possa creare brutture che non trovano giustificazione nella contestualizzazione storico sociale.

 

Scultura commemorativa donata dai fratelli Guadeloupe all’isola

 

La nostra guida, Mamadou, ci spiega che gli schiavi erano divisi in celle in base al sesso e, un bambino smetteva di essere considerato tale all’età di 12 anni. In 5 mq vivevano circa 25 persone e, chi provava a ribellarsi veniva rinchiuso per una settimana nella cellule des recalcitrants, privato di cibo e acqua e costretto a subire 29 frustate, in base ad una legge dell’epoca. La punizione non risparmiava neanche le donne incinte, il cui pancione trovava spazio in un buco scavato all’interno della cella. La vita all’interno della maison era scandita da violenze, soprusi, stupri per mesi, prima della partenza alla volta del nuovo continente. Chi sopravviveva alle torture passava per una porta che dà sul mare, dal nome poetico e terribile “voyage sans retour” dove l’aspettava la nave che avrebbe attraversato l’Atlantico.

Porta del non ritorno

La disposizione sul natante seguiva le stesse leggi sadiche applicate su terra ferma. I corpi delle schiave e degli schiavi erano incastrati come dei tetris. Incatenati gli uni alle altre, con persone disposte a terra e altre in piedi sui corpi dei propri compagni. Secoli addietro l’oceano non era inquinato come ora ed era un ambiente più ospitale per gli squali, i quali vivevano nelle prossimità delle case degli schiavi e si nutrivano dei loro corpi, qualora qualche disperato provasse a fuggire via mare.

Le spiegazioni di Mamadou sono chiare ed impeccabili. Danno il senso della miserabilità che la vita umana può raggiungere per altri umani laddove intervengono dinamiche economiche e di potere. Penso a quanto la storia davvero non ci abbia insegnato nulla, penso ai confini fisici che dividono il mondo. Penso a tutte le porte del non ritorno che ancora esistono e che varcano i migranti irregolari dall’Africa subsahariana che muoiono in mare, a quelli che diventano schiavi nelle connection house in Libia, penso alle porte del non ritorno dei profughi afghani e siriani e dei migranti messicani al confine USA. Penso a Thomas Sankara quando disse che il colonialismo non era finito ma si era solo trasformato, tenendo sotto scacco economico le ex colonie.

Dopo la visita alla maison continuiamo a camminare per l’isolotto, siamo assediate dai commercianti, ci pregano di entrare nelle loro boutique, ma io davvero non ho voglia di comprare nulla. Una di loro, Sokhna, mi invita solo “a guardare, senza comprare”. Inizia a sventolarmi addosso un ventaglio per tenermi fresca, le chiedo di non farlo. Lei continua e mi dice che le fa piacere, la prego di smetterla e dopo varie insistenze riesco a convincerla. So benissimo che la sua gentilezza è volta a farmi acquistare qualcosa, infatti mi profila un numero indefinito di orecchini. Mi dice che quel giorno non aveva ancora venduto nulla. Alla fine decido di comprarne un paio.

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Tatiana Noviello