Finca Marta, la campagna che ride e piange

Finca Marta, la campagna che ride e piange

| Agroecologia rurale nell’isola di Cuba |

Nonostante la crisi e l’embargo, nascono piccole realtà rurali in cui si torna alla natura e si coltiva in maniera sostenibile.

In un’isola in cui si importa oltre il 60% del cibo che poi viene consumato e 2.7 milioni di ettari su 6.2 sono coltivati, nasce nove anni fa il progetto agroecologico di Finca Marta.

Nel libro promosso dalla FAO, l’autore e ideatore del progetto, Fernando Funes, scrive che “Finca Marta è riflesso della Cuba di ieri e oggi, è la campagna che ride e piange, che si impegna a fare qualcosa di diverso”.

Per noi la finca è l’antica masseria, per Fernando, sua moglie, i suoi figli e gli altri collaboratori è diventato un nuovo stile di vita. A solo 20 chilometri da La Habana, la giovane coppia (lui scientifico, lei lavoratrice in ambito turistico) e i figli hanno deciso di rinunciare alla comodità della vita in città e trasformare un terreno abbandonato in un “Eden produttivo”.

Finca Marta è considerata uno dei progetti che stanno nascendo per contrastare la crisi economica cubana e l’embargo a cui l’isola è sottoposta quasi ininterrottamente dal 1962. Su questa realtà, nel 2021 è stato pubblicato dalla FAO un libro intitolato “La metafora del pozzo”: viene ritenuta fonte di ispirazione per coloro che sognano di raggiungere la meta di Hambre Cero (Fame Zero), oltre che una prova dell’enorme potenziale che può avere l’agroecologia col fine di creare comunità agricole sostenibili nel mondo.

Nel nome, c’è la presenza della famiglia: Marta era infatti il nome della madre di Fernando Funes. La famiglia, oltre alla compagna e i figli, si è allargata anche a tutti i collaboratori che ora formano parte della comunità rurale. Nella finca, con le risorse naturali disponibili ed energie rinnovabili, vengono prodotti vegetali e altri prodotti ottenuti tramite metodi ecologici e vengono anche commercializzati in diversi segmenti di mercato: quanto ottenuto dalla vendita viene ripartito in modo equo tra tutte le persone che lavorano al progetto.

In un mondo che presenta diverse sfide, come l’urbanizzazione, il cambiamento climatico, la degradazione del suolo e la perdita della biodiversità, creare sistemi alimentari che equilibrino le dimensioni sociali, economiche e ambientali è l’unica via per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.

La sovranità alimentare che il Paese sta promuovendo propone modelli sostenibile di produzione basati sull’agroecologia, sulla trasformazione di ogni angolo in giardini di alimenti, sulla partecipazione della famiglia e la ripartizione di terre per produrre iniziative proprie. La metafora del pozzo, si scrive nel libro, può essere lo specchio in cui si vedono riflessi coloro che guardando al futuro per raggiungere sovranità.

Funes afferma che le argomentazioni dell’agricoltura ecologica sono sempre più solide e pertinenti, tuttavia rimangono orfane dell’impegno politico, nazionale e globale, che dovrebbe constatare e rimediare al danno dell’industria che abusa del territorio naturale e comunitario: rimane aperta la domanda, aggiunge, sull’utopia della sovranità locale in un mondo globalizzato. Per Thomas Sankara, il Che del deserto burkinabé, la sovranità è quanto di più essenziale per la libertà di un popolo degno.

Il libro invita anche a ragionare sulla necessità di un’integrazione tra dimensioni produttive, tecnologiche e socioeconomiche, sottostando comunque alla natura e non al nostro distruttivo antropocentrismo: passare, come nel caso di Funes, da essere un accademico ad essere un agricoltore. Come scrive lui stesso, solo le comunità hanno la capacità di radicare concetti e credenze, modi e tradizioni che perdurino: costruendo dal basso un fascino per il mondo rurale che possa raggiungere o superare quello per il mondo urbano.

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Maria Casolin