Caregiver: quando prendersi cura di un’altra persona è un lavoro indispensabile ma non retribuito

Caregiver: quando prendersi cura di un’altra persona è un lavoro indispensabile ma non retribuito

Secondo i dati ISTAT sono 8,5 milioni le persone che assistono volontariamente un individuo non autosufficiente

Dei 7,3 milioni di caregiver familiari il 60% sono donne tra i 45 e 55 anni

Il termine “caregiver”, parola di origine anglosassone, è entrato, ormai da diversi anni, stabilmente nell’uso comune anche in Italia, indicando “colui che si prende cura” di un’altra persona.

Secondo i dati ISTAT sono 8,5 milioni, il 17,4% della popolazione, i caregiver che assistono volontariamente un individuo non autosufficiente, ammalato e/o disabile, di solito familiare.

In Italia i caregiver svolgono un ruolo decisivo a supporto di un sistema di welfare familista, ovvero caratterizzato dalla limitata offerta di servizi pubblici di cura e dall’attribuzione di responsabilità, anche legali, alla famiglia.

La cura dei soggetti non autosufficienti è tradizionalmente lasciata alla responsabilità della famiglia, in relazione anche alla bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro.

Secondo un’indagine ISTAT del 2010 dei 7,3 milioni di caregiver familiari, infatti, il 60% sono donne tra i 45 e 55 anni.

In molti casi le persone chiamate a svolgere compiti di cura si trovano impreparate, con una scarsa consapevolezza del proprio ruolo, delle competenze necessarie e delle conseguenze sulla vita quotidiana e familiare.

I compiti del caregiver possono essere diversi: dall’assistenza diretta, alla sorveglianza passiva, a seconda delle abilità residue dell’assistito. Alcuni familiari richiedono un sostegno che riguarda l’igiene personale, la preparazione e somministrazione dei pasti, il seguire le prescrizioni mediche, l’eventuale somministrazione di farmaci, ecc.

La sorveglianza passiva è invece relativa ai casi in cui l’assistito, seppur con livelli variabili di autonomia, debba essere seguito e controllato, per diverse motivazioni, tra le quali l’ipotesi che possa causare situazioni di pericolo per sé o per gli altri.

Oltre a questi compiti di carattere più assistenzialistico, il caregiver deve spesso occuparsi delle questioni amministrative e burocratiche, mantenere rapporti con enti o strutture che si occupano della persona, fornire un servizio di accompagnamento in ospedale o altri centri medici, occuparsi dell’acquisto di ausili, protesi, ecc.

Tali attività possono richiedere un impegno del caregiver discontinuo e saltuario, o anche a tempo pieno, a seconda delle condizioni dell’assistito, della presenza di altre persone impegnate nella cura e dell’eventuale accesso a servizi domiciliari o semi-residenziali.

Nonostante l’importanza di questo lavoro, il ruolo del caregiver non è ancora riconosciuto i Italia, anche se, da almeno cinque anni, si lavora a una legge nazionale che conceda dignità e diritti a chi svolge questa attività di cura.

Abbiamo chiesto alla sig.ra Anna Maria Paoletti, impegnata da anni nel campo della disabilità e portavoce della pagina Facebook Family Caregiver Italiani, quali pensa siano i problemi a causa dei quali nel nostro paese non esiste ancora una norma nazionale che tuteli questo tipo di assistenza.

Credo che le cause siano sostanzialmente due: la mancanza di disponibilità economica e la poca conoscenza (per non dire disinteresse) del ruolo del caregiver da parte delle stesse Istituzioni. Già nella scorsa legislatura diverse associazioni si erano impegnate per spiegare quali fossero le carenze del nostro sistema sanitario e sociale che portavano di fatto il familiare ad assumere un ruolo che va oltre a quello di “colui che si prende cura”.  Perché bisogna distinguere bene le due cose: nel momento in cui la disabilità entra a far parte della tua vita è l’intero nucleo familiare che viene rivoluzionato. E la scelta forzosa che induce la persona a rinunciare alla sua esistenza è data dal fatto che sono scarsi, se non addirittura mancanti i servizi. Come fai a lavorare se contemporaneamente hai un bambino che non ha il sostegno sufficiente nella scuola, o che deve essere accompagnato per le terapie? Come fai a pensare di avere una vita tua se non puoi neanche permetterti di ammalarti? Allora è lì che scatta la differenza: se la persona assistita è seguita a 360 gradi, sia sotto l’aspetto sanitario, sia sotto quello sociale, in quel caso il caregiver è veramente “colui che si prende cura”, ma quando il caregiver deve sostituirsi alle Istituzioni e garantire un’assistenza sanitaria e una vita sociale, beh, in quel caso sfido chiunque a dirmi che non si tratti di un lavoro a tutti gli effetti, disconosciuto, non retribuito, sfruttato, ma sempre lavoro. E a quel punto, quel “gratuitamente” ha il sapore di una beffa”.

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Veronica Lo Destro

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